ARCHITETTURA TECNICA

IL DOMINIO COSTRUTTIVO DI UNA QUESTIONE DI METODO

Definiamo da sempre la tecnica come il linguaggio universale dell’esistere e del costruire all’interno delle scienze umane: l’impronta dei nostri pensieri e dei nostri intendimenti sviluppa infatti, tecnicamente, l’implicazione logica degli atti che configurano la concretezza e la forma che intendiamo attribuire al tempo e allo spazio dell’attualità e della memoria.

L’invenzione dei nuovi materiali costruttivi agevola oggi la linea dell’estetica “strutturale”, che esalta il linguaggio esplicito delle capriate, delle cerniere, dei carrelli, degli snodi , dei montanti e dei contrappesi, mimando la logica degli impianti transitori dell’’esistere e dell’abitare : in tal caso, le soluzioni affusolate  delle travature lignee e delle tenso–strutture, composte e modellate dalle funi, dai tiranti e dagli elastici tessuti protettivi, sono visivamente riferite alle acquisite forme della navigazione o agli storici legamenti dei ponti leggeri e delle tende mobili. Il mondo visionario contemporaneo si è costantemente misurato con tali suggestioni, tipiche dell’”architettura tecnica” o della “tecnoarchitettura”, anche realizzando concretamente impianti strutturali sottili di grande portata: non avremmo acquisito oggi la lezione proto – novecentesca e futurista di A. Sant’Elia, nonché dei grandi utopisti degli anni cinquanta e sessanta, quali gli esponenti del gruppo Archigram, Metabolism o Metamorph, se non confortati dalla  verifica della sapienza costruttiva dei maestri moderni dell’acciaio e del cemento armato precompresso, quali P. L. Nervi e R. Morandi. Neppure potremmo godere, ad esempio, della straordinaria opera profetica di Frei Otto, di R. Piano, di R. Rogers, di S. Calatrava, di M. Fuksas, di R. N. Foster o di C. Pelli, se non suffragati dalle visioni matematiche, filosofiche, geometriche e strutturrali di R. Buckministerfuller, di K. Waksmann o  di Y. Friedman.

Tuttavia, se la mera concezione della “macchina per abitare” di Le Corbusier non può rispondere, negli effetti della storia moderna e della nostra contemporaneità, al desiderio  di uno spazio protettivo e confortante che esclude il mondo fatalmente ripetitivo delle cadenzate ossature metalliche e cementizie, emerge l’antitesi, anch’essa innovativa, che rigenera la continuità delle superfici e la logica delle modanature, delle scocche e degli schermi che fasciano le sagome dei nostri spazi, sostituendo ai ritmi delle accentuate e battenti vibrazioni meccaniche le modulazioni chiaroscurali, che diluiscono ed attenuano le nette angolazioni dei risalti frammentati, attraverso la continuità mediata dei trattamenti superficiali. Ricorriamo qui all’occasionale citazione delle architetture “piene” di L. Khan, di C. Scarpa, di A. Rossi, di M. Botta di P. Portoghesi e di quanti altri, in nome della nuova ricerca afferente alla qualità degli apparati e degli apparecchi architettonici tradizionali o innovativi, svolgono ancora discorsi di tecnica soffusa, in cui il sapere dell’aggiornamento, relativo ai materiali e al loro appropriato e migliore impiego funzionale e figurativo, appare anch’esso  prevalente nel campo linguistico  della ricerca e della sperimentazione. Emergono ancora dunque, ai nostri giorni, le suggestioni tecniche e scenografiche delle moderne macchine neomedioevali e neobarocche, che si contrappongono alle tesi rappresentate dai più recenti esegeti ed “interpreti ultimi” della “durata” dell’architettura, di cui intendono asseverare le tracce, pur contraddittorie, nello scenario del complesso nostro tempo futuro.

Riccardo Cecchini

IMG_2960

[Paolo Portoghesi – Moschea, Roma 1984]