Maddalena Fanconi
L’artista
«In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo. Dio disse: “Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque”. Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona» (Gn 1, 1-10).
È per dare forma alle parole iniziali del libro della Genesi, e precisamente a quelle che descrivono con potenza impareggiabile il passaggio tra il secondo e il terzo giorno della Creazione, che Maddalena Fanconi ha realizzato quest’opera: un lavoro complesso ed articolato, nel quale certamente ha inteso condensare in primo luogo la profondità della sua fede, ma nel quale pure – allo stesso tempo – i riferimenti culturali conducono ben oltre la confessionalità, aprendo visioni su percorsi improvvisi, imponendo abissali arretramenti temporali, proponendo inaspettati viaggi nella storia dell’arte.
Analisi Critica
Si potrebbe cominciare parlando dell’uovo, forma originaria e densa di significati che evidentemente emblematizza il “Principio”, l’inizio del Tutto. Quando le due sezioni dell’opera sono accostate, lo spettatore coglie una forma dalla superficie polita e luminosa, solcata da incisioni evidenti (benché sottili) che tuttavia non smentiscono l’impressione di sintetica perfezione (certamente amplificata anche dall’utilizzo della foglia oro, che proietta anche lo spettatore in una dimensione assoluta ed atemporale); e se sul piano dei riferimenti formali il pensiero corre agli ovoidi lucenti e quasi spaziali di Constantin Brancusi (dalla Muse endormie a quel Commencement du monde che più di altri lavori mostra sin dal titolo di essere un riferimento se non altro ideale per l’artista), sotto il profilo simbolico l’uovo sembra dichiararsi anche quale testimonianza della perfezione divina, già raggiunta e compiuta “in potenza” prima ancora di potersi esplicare nella multiforme bellezza del Creato. Infatti, ciò che si materializza dinnanzi ai nostri occhi è il momento in cui le “cose” – il mondo oggettuale dell’esistenza quotidiana – ancora non esistono, eppure sono allo stesso tempo già presenti ed anzi persino già attive in nuce, in pensiero; e pertanto anche l’artista e lo spettatore sono già coinvolti e “compresi” nell’uovo, cosicché per paradosso – nei rispettivi atti di formare ed osservare l’opera – essi stanno in qualche modo formando e osservando loro stessi nella totalità del Disegno Divino, ovvero nelle loro connessioni tanto con il mondo della materia quanto con quello dell’immateriale.
Naturalmente, però, l’uovo è anche simbolo della vita che cresce nel grembo materno; e non è forse un caso, allora, che i percorsi disegnati nelle parti interne dell’opera – visibili quando la sua articolazione bipartita viene mantenuta – delineino forme vagamente spermatozoiche, e che nella terminazione addirittura si gonfiano guadagnando spazio nella terza dimensione, quasi a segnalare plasticamente l’avvenuto concepimento della vita. Sul piano compositivo, inoltre, sembra di poter cogliere anche altri debiti: nella specularità tra Terra e Cielo emerge forse una qualche suggestione dantesca o agostiniana; nel Cielo sembra di vedere una profondità interstellare fotografata dal telescopio Hubble, in cui una cometa attraversa lo spazio lasciando dietro di sé una traccia luminescente (mentre sulla superficie esterna la linearità leggera, schematica e quasi “melottiana” delle costellazioni fluttua nell’infinito); la Terra appare come vista dall’alto, quasi inquadrata in una fotografia aerea che mostra un dorato “graffio” di Land Art su un territorio color rame (contraltare su scala gigantesca, ma dal significato ugualmente esistenziale – “io ci sono, io sono qui” –, delle incisioni dell’arte rupestre riportate sulla superficie esterna); e ancora, mentre la texture delicatamente increspata del fondo appare come una moderata interpretazione di superfici informali alla Dubuffet, la generale distribuzione dei pesi e degli spazi sembra dovere qualcosa alla suggestione di taluni brani “aeropittorici” e “parasurrealisti” di un Fillia, di un Prampolini, di un Munari.
L’opera
Infine, non si può non segnalare la notevole rilevanza che nell’opera assume la componente decorativa; e la cosa non stupisce affatto, dal momento che Maddalena Fanconi si è formata, nei suoi studi accademici, proprio in un corso di Decorazione (anche se per la verità i suoi interessi spaziano ben oltre la tradizionale sfera di competenza del decoratore, sconfinando ad esempio anche nel campo delle nuove tecnologie). Posto questo, però, va altresì precisato che nel suo lavoro tale “decorativismo” non si esplica nella volontà di fare dell’art pour l’art (e comunque anche se fosse – e sarebbe ora di riconoscerlo definitivamente – non ci sarebbe nulla di negativo o di superficiale, come ci hanno mostrato tanti straordinari protagonisti del Novecento, sino alle ultime creazioni di un Murakami); al contrario, l’artista bresciana intende la decorazione in primo luogo quale “strumento di servizio” volto ad accrescere la “qualità della vita” del fruitore, attraverso una qualificazione estetica di oggetti e ambienti che si propone di trasmettere gioia e speranza, e che soprattutto cerca di farlo rispondendo per così dire “singolarmente” alle esplicite e specifiche richieste di chi poi con l’opera dovrà convivere, in un clima di condivisione e partecipazione con il committente che la Fanconi percepisce decisamente come uno stimolo alla creazione, piuttosto che come una costrizione limitante. E d’altro canto, se l’arte – per usare le parole dell’artista stessa – è «al servizio del benessere umano», è naturale che l’artista debba cercare di dialogare con il prossimo: «vedere il tuo sorriso, la felicità perché ho saputo soddisfare la tua richiesta e ti ho stupito».
Borsino
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